Rappresentazione visiva della povertà: l’Africa che si stampa nelle buste
- Gerardo Fortino
- 23 lug
- Tempo di lettura: 3 min

Rappresentazione visiva della povertà: i dati che inchiodano le ONG britanniche
Ricordando l’articolo sullo studio di David Girling che ho scritto tanti mesi fa, torno a parlarne perché questa mattina – tra un caffè e una newsletter – mi appare questo nuovo studio pubblicato sul profilo LinkedIn proprio da lui. Lo rilancio qui, perché è una riflessione che scotta. Una di quelle che non ti fanno girare la faccia dall’altra parte. Una di quelle che inchiodano i buoni a tavola con i cattivi.
Il nuovo rapporto si chiama "Charity Representations of Distant Others". Suona bene, ma è più tagliente di quanto sembra. Pubblicato dal progetto Charity Advertising, mette in fila 589 immagini, 31 campagne di direct mail, 9 ONG britanniche. Un lavoro chirurgico, lento, senza sconti. E alla fine, il verdetto: la rappresentazione visiva della povertà è ancora una trappola semantica. Una narrativa tossica vestita da solidarietà.
Scarica il rapporto qui
L’Africa ovunque, anche dove non serve
Il 51% delle immagini analizzate ritrae l’Africa. Non Asia, non Sud America, non i Balcani. No, l’Africa. Eppure, le ONG coinvolte operano in decine di paesi, spesso solo in parte africani. Prendi Christian Aid: 14 paesi di intervento, ma nelle sue buste promozionali, 72% delle immagini ambientate nel continente africano. Perché? Perché funziona. Perché chi vede un bimbo nero con gli occhi lucidi apre il portafoglio.
E qui si apre la ferita: quando l’immagine diventa moneta di scambio, il dolore diventa spettacolo.
Povertà sì, ma che sia fotogenica
Lo studio spiega senza tanti fronzoli che questa insistenza rischia di rafforzare lo stereotipo secondo cui povertà = Africa. Un’equazione pericolosa, scorretta, paternalistica. Inoltre, così facendo, le ONG finiscono per oscurare le altre crisi del pianeta. Quelle che non fanno notizia. Quelle che non piangono abbastanza forte per essere fotografate.
Il rapporto accusa:
«Queste pratiche possono perpetuare una visione transazionale del lavoro umanitario, dove la sofferenza è strumento di fundraising, non mezzo di consapevolezza».
Tradotto: non informano, vendono. Non costruiscono coscienza, attivano impulso.
Corpi curati, ma mai protagonisti
Il tema salute domina: un terzo delle immagini mostra persone malate o in cura. Ma mai chi cura. Mai strutture. Mai operatori locali. Solo corpi da salvare. Sempre gli stessi. E sono soprattutto donne e bambini: 60% delle immagini. I padri? I maschi adulti? Fantasmi. Solo 9 immagini su 589 ritraggono un padre col proprio figlio.
È l’ennesimo cliché della comunicazione: la madre disperata, il bambino malato, lo sfondo polveroso. Una sequenza narrativa che si stampa nelle retine e non si schioda più.
Meno pietismo, ma il danno resta
C’è un dato che sembra positivo: le immagini pietose, quelle davvero sfruttate, quelle con mosche sugli occhi e pelle incollata alle ossa, sono quasi sparite dalle lettere postali (meno dell’1%, contro l’11% degli annunci stampa). Ma non è abbastanza.
Perché, anche senza pietismo, la rappresentazione visiva della povertà continua a usare il dolore come sfondo e mai come voce.
La domanda che resta: per chi raccontiamo?
Deborah Adesina, co-autrice del rapporto, la pone così:
«Le immagini che usiamo stanno davvero costruendo un pubblico consapevole? O stanno solo rinforzando narrazioni semplicistiche per ottenere reazioni e donazioni immediate?»
È la domanda giusta. L’unica che conta. E se la risposta è la seconda, allora siamo ancora nel medioevo dell’immaginario umanitario.
Articolo tradotto e integrato a quello di Emily Harle
Commenti